Gianni Vattimo III

Lo stesso dispositivo sta alla base di altre due strategie filosofiche successive: l’apologia del nichilismo e il “credere di credere”. La prima, presentata nel volume La fine della modernità (1985), contrappone il nichilismo alla dialettica e alle filosofie dell’autenticità. Ora solo da un punto di vista molto superficiale ed estrinseco si può presentare questo conflitto nei termini di una opposizione tra disfattismo e fondazionalismo filosofico. In realtà Vattimo ritiene che sia proprio il pathos del fondamento e dell’autentico a portare la filosofia alla rovina, perché privo di qualsiasi aggancio con l’esperienza individuale e sociale.
Infine anche il volume Credere di credere (1996) costituisce la messa in atto di una strategia ironica che si potrebbe definire come il disincanto del disincanto, cioè la continuazione del processo di demitizzazione che investe anche se stesso e riconosce come mito anche la liquidazione del mito. Ciò tuttavia non conduce Vattimo a rivalutare la fede cristiana in quanto fede autentica e forte, ma al contrario a considerare il cristianesimo come l’abbassamento, l’indebolimento, la kenosis delle pretese metafisiche contenute nell’ebraismo e nell’ellenismo. In altre parole non c’è bisogno di demitizzare il cristianesimo, perché Cristo è già stato il primo demitizzatore nei confronti dell’ebraismo e della religione naturale, basati sulla paura di un Dio “differente”, cioè minaccioso e bizzarro; si tratta semmai di continuare la sua “azione di dissoluzione ironica” nei confronti del male (p.92). Insomma, il cristianesimo avrebbe iniziato quel processo di secolarizzazione che il pensiero debole porta a compimento. Ciononostante il pensiero di Vattimo non è affatto conciliatore e pacificatore, ma un’arma da guerra estremamente raffinata. A prima vista, il suo libro si regge sull’opposizione tra un’idea liberale, mondana e secolarizzata di religione (che ha il suo fulcro nella virtù della carità) e il fondamentalismo religioso (di cui Giovanni Paolo II sarebbe l’espressione); in questi termini il suo discorso sembra affine all’Illuminismo e alla sua polemica contro il fanatismo e il clericalismo. Dietro questa apparenza si nasconde tuttavia un’altra dimensione: il vero conflitto non sarebbe tra chi “crede di credere” e chi crede in modo fanatico, ma tra chi “crede di credere” e chi finge di credere: così Vattimo sarebbe dalla parte della fede contro l’ipocrisia. Ma questo “credere di credere” tuttavia non consiste nell’affermare una qualche verità, ma semplicemente nel ribadire il primato della “maschera buona” (che dice che tutto è mito e illusione) sulla “maschera cattiva” (che pretende di spacciare il mito e l’illusione per realtà). Vattimo conferma così il carattere essenzialmente ironico del suo pensiero che soprattutto in quest’ultimo scritto procede secondo un dispositivo retorico ben noto agli antichi: quello di rendere odioso e insopportabile l’avversario attribuendogli una forza che in realtà non ha . Del resto la retorica latina traduceva la parola greca eironeía con inlusio, parola nella quale l’elemento ludico dello scherno e della beffa è congiunto a quello estetico dell’apparenza e della maschera.
Con Vattimo l’estetica italiana acquista una piena consapevolezza della filosofia come evento, cioè come avvenimento dotato di uno statuto ontologico per nulla inferiore ai pretesi fatti della politica e dell’economia, di cui sono piene la pagine dei giornali e i programmi televisivi. Debole è la filosofia praticata alla maniera tradizionale come rispecchiamento, esegesi, teoria che non pensa il proprio statuto; ma l’operazione strategica “Pensiero debole” non è affatto debole, anzi è fortissima. Lo stesso si può dire a proposito dell’ironia; debole sarebbe una ennesima teoria dell’ironia, ma forte è l’ironia in atto, il pensiero ironico in atto che decostruisce le opposizioni della metafisica, della politica, della scienza e della religione e che spiazza i valletti delle istituzioni e dei mass media, pronti a gettarsi come cani affamati sul primo osso che Vattimo getta loro. Appart11ono al genere di queste ossa, che al massimo hanno intorno a loro con un po’ di carne rancida e putrefatta, molte delle tendenze cui il pensiero di Vattimo è stato associato o a cui lui stesso si è ironicamente associato. Le principali sono l’ermeneutica, il postmoderno, il pensiero della differenza e la teoria delle comunicazioni di massa. Si tratta di orientamenti che Vattimo ha studiato e con cui si è confrontato, ma con i quali il suo pensiero originale ha in realtà poco che fare. Per quanto riguarda l’ermeneutica, la tesi secondo cui non esistono fatti, ma solo interpretazioni deriva da Nietzsche, il quale considera appunto l’ interpretazione come “un mezzo per acquistare il dominio sopra una cosa” (Il soggetto e la maschera, p. 302). Del resto Vattimo stesso è apertamente polemico nei confronti di Gadamer e di Pareyson, cui rimprovera di fornire, loro malgrado, un’apologia delle cose come stanno (p.314). Non a caso il suo libro più organicamente dedicato all’ermeneutica filosofica, si intitola molto significatamente Oltre l’interpretazione (1994). Più stretti sembrano i legami col postmoderno, se non altro per il comune atteggiamento ironico, ma c’è in Vattimo una energia combattiva e polemica che eccede il quadro della cultura postmoderna, almeno nella forma in cui si è presentata in italia. Quanto alla filosofia della differenza, il suo pensiero - nonostante alcune esitazioni evidenti nel volume Le avventure della differenza (1980) - si pone su un cammino opposto a quei pensatori che come Derrida attribuiscono una particolare enfasi a questa nozione; proprio a Derrida egli rimprovera la svalutazione della storia mondana e il ristabilimento di un rapporto verticale con l’alterità (Credere di credere, p. 86). Infine per quanto concerne i media, sui quali si sofferma il volume La società trasparente (1989), la loro “eterotopia” (opposta all’utopia dell’avanguardia e del pensiero critico) può andare al di là della frivolezza solo se inquadrata in un’esperienza filosofica.
Copyright©MarioPerniola 1999
Testo pubblicato in "Le ultime correnti dell’estetica in italia”, estratto dal volume “Il Novecento. Scenari di fine secolo,” Milano, 2001.

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