Italo Calvino

Come è noto, Freud è stato il maggior teorico della categoria estetica del Witz, cioè dell’arguzia, la quale costituisce una formazione di compromesso tra termini che stanno tra loro in un conflitto irresolubile perché tra loro sussiste una differenza incolmabile. Tale conflitto più radicale di tutti quelli pensati dal pensiero filosofico può dare luogo a varie patologie, che costituiscono appunto l’oggetto di studio della psicoanalisi; ma consente anche il sorgere di produzioni culturali dotate di una grande raffinatezza nelle quali l’opposto viene riconosciuto e mantenuto nella sua differenza senza essere assimilato e senza essere capovolto nel suo contrario. Questa capacità di dar voce e di apprezzare il differente appartiene alle grandi civiltà, che come quella italiana conservano una memoria storica millenaria di infiniti conflitti e di infinite infamie. L’arguzia è appunto il modo estetico di pensare una lotta estrema senza farsi coinvolgere nell’utopia della pace, nel mascheramento dell’ironia e nemmeno nel pathos del sublime.
Tra gli scritti di estetica che si muovono in questa direzione un posto di rilievo è occupato dalle Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio (1988) dello scrittore italo Calvino, che sono rimaste incompiute e sono state pubblicate postume. Di queste sono state scritte solo le prime cinque che hanno per argomento le nozioni di leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità e molteplicità. Si tratta di termini che hanno una grande popolarità perché sembrano interpretare per così dire lo spirito dei tempi, cioè la linea di tendenza dell’era tecnologica e postindutriale. Sotto questo aspetto costituiscono delle banalità e proprio per questo sono adatte a richiamare l’attenzione di un vasto pubblico e dei mass media. Calvino ne è perfettamente consapevole e fin dalla prima conferenza paga lo scotto all’opinione pubblica con due osservazioni che hanno tra loro un rapporto complementare e che costituiscono la chiave per entrare nella sua officina intellettuale. La prima riguarda il preteso “dovere” dello scrittore di “rappresentare” il proprio tempo; questo imperativo ha spinto Calvino da giovane a “immedesimarsi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo”, e a porsi in sintonia col “movimentato spettacolo del mondo” (p. 631) . Tale intimazione a esprimere la propria epoca è tuttavia presto parsa a Calvino assai divergente rispetto alla propria vocazione letteraria. La seconda osservazione riguarda il carattere “leggero” e “senza peso” della seconda rivoluzione industriale la quale “non si presenta come la prima con immagini schiaccianti quali presse di laminatoi o colate d’acciaio, ma con i bits d’un flusso d’informazione che corre sui circuiti sotto forma d’impulsi elettronici (p.636). Ovviamente questo stesso discorso vale anche per le altre quattro idee forti di cui Calvino si presenta a prima vista come corifeo: chi infatti potrebbe negare che la rapidità, l’esattezza, la visibilità e la molteplicità sono oggi valori vincenti? La pressione esercitata dai media ha completamente screditato i valori opposti, per cui sostenere le ragioni della pesantezza, della lentezza, dell’approssimazione, dell’astrazione e dell’unità significa passare per un disadattato, un vecchio babbione o un trombone universitario. Né è possibile opposti pensare gli opposti in modo dialettico o organicistico, come avveniva negli anni Cinquanta; di questo si sono accorti precocemente Eco e Vattimo, scegliendo l’arma dell’ironia. Tuttavia il dispositivo costruito da Calvino è meno aggressivo e più sottile dell’ironia: egli sta davvero dalla parte della leggerezza, della rapidità, dell’esattezza, della visibilità e della molteplicità, ma in un senso radicalmente differente dal’uso banale di queste parole. La sua strategia mi sembra perciò riportabile non all’ironia, che implica dissimulazione e mascheramento, ma all’arguzia, che crea un altro livello di senso, sotterraneo e autonomo; essa è un compromesso ineguale che concede al nemico solo l’apparenza di una convergenza, quel tanto che basta per fargli allentare la rimozione. Come dice Freud, essa gli dà ragione solo “nell’unico punto in cui è facile dimostrare che ha torto” ; il suo piacere è tale - aggiunge Freud - “da farci supporre che la tendenza prima repressa sia riuscita a spuntarla senza subore praticamente nessuna sottrazione”. L’ironia presuppone ancora la capacità del pubblico di capire il mascheramento; con Calvino questa fiducia, che nutre ancora l’opera di Eco e di Vattimo, sembra essere venuta meno. L’arguzia si affida a quei pochi che la sanno cogliere e che ridono. Gli altri applaudono senza capire, paghi di sentire parole che a loro sembrano manifestare quella che suppongono essere la tendenza dei tempi!
Calvino inizia le sue lezioni con un’affermazione perentoria: “Dedicherò la prima conferenza all’opposizione leggerezza-peso, e sosterrò le ragioni della leggerezza”. Ma della leggerezza esistono almeno due tipi: quella di cui egli vuol parlare non è la frivolezza, ma una “leggerezza della pensosità”, che può fare apparire la frivolezza come pesante ed opaca; spesso ciò che “scegliamo ed apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile” (p.635). Veramente leggera è la poesia, la letteratura, la filosofia, non la realtà del mondo, che è invece paragonabile ad “un cimitero d’automobili arrugginite” (p.639). Perciò la leggerezza che Calvino elogia è piuttosto una sospensione e una sottigliezza, di cui adduce molti esempi letterari. Quello tratto da Cyrano de Bergerac, che proclama la fraternità degli uomini con i cavoli, mi sembra tra i più arguti.
Lo stesso dispositivo è messo in opera nell’esame della rapidità. Infatti quella si cui parla Calvino non è la fretta dei nostri tempi “rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante”, ma la qualità delle fate “che sono assai svelte nelle loro faccende” (p.661)! Essa perciò appartiene a quelle attività intellettuali che sembrano talora realizzarsi “per folgorazione improvvisa” e che puntano “sulla massima concentrazione della poesia e del pensiero”. Si tratta perciò di qualcosa di essenzialmente differente dalle caratteristiche di quei “media velosissimi e di estesissimo raggio” che oggi trionfano e “richiano di appiattire ogni comunicazione in una crista uniforme ed omogenea” (p.668). La funzione della letteratura oggi è “la comunicazione di ciò che è diverso in quanto è diverso, non ottundendone bensì esaltandone la differenza, secondo la vocazione propria del linguaggio scritto”. Calvino ribadisce un’idea di letteratura e di arte basata sulla raffinatezza e sulla perfezione formale. Il capitolo sulla rapidità si conclude con la storia del disegnatore Chuang-Tzu da cui il re voleva il disegno di un granchio. Egli disse al re che aveva bisogno di cinque anni di tempo e di una villa con dodici servitori. Scaduti i cinque anni, non avendo nemmeno ancora cominciato il disegno, Chuang-Tzu chiese al re altri cinque anni alle stesse condizioni. “Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto” (p. 676).
Quanto alla terza nozione, quella di esattezza, essa è proprio l’opposto della rigidità stereotipata che caratterizza il linguaggio contemporaneo. Questa è considerata da Calvino come una “peste” che si manifesta “automatismo che tende a livellare l’espressione sulle forrmule più generiche, anonime, astratte”, a “spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze” (p. 678). L’esattezza non esclude l’indeterminazione, ma anzi la implica. La ricerca di bello come vaghezza presuppone attenzione e massima precisione. Il giusto uso del linguaggio implica discrezione. Agli amanti dell’esattezza interessa più il processo che il compimento.
La quarta idea per il prossimo millennio, la visibilità, non ha nulla che fare con la “civiltà dell’immagine” , la quale anzi costituisce “un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo” (p.707). Essa per Calvino è in stretto rapporto con l’immaginazione il quale è un “repertorio del potenziale, dell’ipotetico, di ciò che non è né stato né sarà ma che avrebbe potuto essere” (p.706), secondo una famosa concezione di Giordano Bruno che parlava di “un mondo o un golfo, mai saturabile, di forme e di immagini”. Ciò che è eminentemente visibile non è ciò lo spettacolo dei mass media ci offre, ma proprio ciò che proviene da altre emittenti ben più potenti; queste venivano una volta definite divine, oggi sono invece individuate nell’inconscio, nella memoria, nelle epifanie dell’essere, ma in ogni caso “esorbitano dalle nostre intenzioni e dal nostro controllo”.
Infine la molteplicità è proprio il contrario della genericità che cosituisce la piaga peggiore della scrittura contemporanea: essa evoca l’unicità degli esseri e delle cose, ciò che li differenzia da tutti gli altri. Sotto questo aspetto la letteratura si propone un compito infinito e interminabile: ciò spiega l’incapacità di concludere che caratterizza molti grandi scrittori. Lo scrittore è tale solo se ha ambizioni infinite, cioè se ha il senso della magnificenza: “La letteratura - scrive Calvino - vive solo se si pone degli obiettivi smisurati, anche al di là d’ogni possibilità di realizzazione” (pp.722-3). Siamo dunque lontani mille miglia da una tipieda tolleranza nei confronti della diversità: “Solo se i poeti e scrittori si proporranno imprese che nessun altro osa immaginare la letteratura continuerà ad avere una funzione”.
L’importanza di queste pagine di Calvino non consiste soltanto nelle idee espresse, che potrebbero essere considerate come la formulazione della sua poetica di scrittore; esse rappresentano una soluzione acuta e raffinata del problema degli opposti, il quale costituisce, come abbiamo visto, la questione centrale dell’estetica italiana contemporanea. Calvino rifiuta una presa di posizione “apocalittica”, del genere prospettato dagli estetici del sublime, ma nello stesso tempo non fa nessuna concessione sostanziale alla “società dello spettacolo e della comunicazione”. Per lui vanno bene le parole con cui questa fa propaganda a se stessa; non cade nell’ingenuità di una contrapposizione nella quale si perpetua quella che Nietzsche chiamava la “malattia delle catene”. Egli si mette nel flusso della corrente, ma attraverso di essa veicola messaggi radicalmente alternativi chiusi in un involucro che si spera qualcuno prima o poi apra.
Copyright©MarioPerniola 1999
Testo pubblicato in "Le ultime correnti dell’estetica in italia”, estratto dal volume “Il Novecento. Scenari di fine secolo,” Milano, 2001.

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