Tommaso Landolfi III

Mario Perniola, ” Manierismo e autenticità in Tommaso Landolfi”, pubblicato in ”Tempo Presente”, settembre-ottobre 1965, p.72.

L`esame introspettivo dell`io, condotto nella Bière con non poche compiacenze al racconto, all`aneddoto, alla storietta, è ripreso quasi dieci anni dopo con maggiore rigore in Rien va. La letteratura per Landolfi puà aspirare all`autenticità solo a condizione di essere una ricerca, un « seguitare alla cieca », un « andare senza sapere né dove nè perché »: essa merita di essere praticata solo se è un`esperienza capace di mutare il suo autore, di aprirgli nuovi orizzonti vitali, di condurlo alla salvezza, di vincere il terrore della morte. Puramente illusoria è l`immortalità garantita dalla paternità, assolutamente risibile quella della fama: solo l`avventura dello scrivere può darci se non la certezza, almeno una « speranza sistematica e logica », tale cioè da non escludere nulla e quindi neppure il bene e la salvezza. Rien va perciò costituisce una terribile prova nel senso di punizione e di riscatto: « Essa è la più crudele, la più atroce immaginabile per me; e perciò appunto, in qualche oscura parte della mia coscienza,l`avrò giudicata l`unica possibile, la necessaria, la sola vera prova, la sola che non tenesse all`esperimento, che eludesse ogni compiacimento e ogni gioco estetico».
È fatale che immediatamente emerga la sproporzione tra queste ambizioni e la possibilità del linguaggio: mentre si scrive « tutto si confonde e perde il suo vero carattere, la sua urgenza a mano a mano che si dispone in un ordine purchessia sulla pagina»; la scrittura « non sa abbandonare i suoi lenocini, o piuttosto i suoi mezzucci, e neanche rinunciare a una vantaggiosa disposizione tipografica». Landolfi ha modo di dare libera espressione ad una specie di masochismo, di compiacesi dello scacco che deliberatamente provoca, di fare della sconfitta la propria vocazione. La stessa relazione con la propria individualità, al cui approfondimento l`opera è diretta, risulta distrutta o lanciata in un processo all`infinito (« Che significa poi questo continuo e supremamente sciocco giustificarsi e mostrare che si capisce da sé quello che non va bene? Ma, questa parentesi è anch`essa una giustificazione e una mostra di comprendonio; e così quest`ultima frase, e così via all`infinito »).
Eppure l`estrema esperienza del fallimento, così coerentemente perseguita, conduce oltre se stessa alla scoperta di una essenziale positività della letteratura. «Chi si aspetta salvezza è perduto »: solo a chi è veramente disperato il linguaggio si mostra sotto l`aspetto non più dell`insufficienza e dell`impotenza, ma della pienezza e della realizzazione. Il valore dell`opera e la salvezza dell`autore s`identificano allora con la mera esistenza deI libro: « L`opera non parla attraverso ciò che positivamente dice e neppure attraverso il modo in cui dice, ma attraverso una qualche misteriosa qualità fisica della pagina... Fisica beninteso non è la parola esatta; nondimeno il valore dell`opera non è né concettuale, logico, sentimentale, né estetico, sebbene… fisico, ripeto forzando alquanto il significato dell`aggettivo, non trovo parola più prossima all`idea». Né tale concezione si risolve in un oggettivismo mistico (« Comunque sia, una tale veduta che fa l`opera valida quasi per virtù celeste, supera lo stesso criterio estetico o ne esula, senza pertanto dar nella mistica»), perché, il suo fondamento vero resta soggettivo, ed esistenziale («Basta far passare in un`opera una certa somma di energia (e di abbandono), perché essa riesca inevitabilmente a una qualche consistenza e validità, senza pregiudizio e come a dispetto dei suoi contenuti specifici»). Questa intuizione della dimensione ontologica dell`opera resta, a nostro giudizio, il risultato più maturo e profondo a cui è approdata la ricerca di Landolfi.

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