Filosofi giapponesi

Testo pubblicato in ”Il Manifesto”, 25 marzo 2007, col titolo ”Dal lontano Giappone dialoghi sulla oscura identità dell`individuo plurale”

Cosa pensate se leggete in un libro che un`intervista si è svolta nel 5002? Che c`è stato un errore di stampa. Ma quando questo presunto errore è ripetuto molte volte, cominciate a sospettare che si tratti di un testo di fantascienza. Nel caso specifico del volume Penseurs japonais. Dialogues du commencement, a cura di Yann Kassile (Paris, Édition de l`éclat, 2006), che contiene una ventina d`interviste ai più eminenti filosofi giapponesi, effettuate da Jean d`Istria, nessuna di queste due ipotesi è giusta.
Il cambio della cronologia è intenzionale e programmatico: infatti intende prendere le distanze nei confronti del calendario occidentale sostituendolo con una nuova cronologia che prende come punto di partenza non più la nascita di Cristo, ma l`invenzione della scrittura. Non tutti i filosofi giapponesi concordano con questa proposta; ciò che è ancora più sorprendente è la motivazione del dissenso. Per il fenomenologo Ishida Hidetaka (come è noto in Giappone e in Cina il cognome viene prima del nome), tale innovazione favorirebbe la globalizzazione imponendo a tutti un`unica misura del tempo, mentre oggi esistono ancora culture che, come quella islamica e quella giapponese (per la quale oggi siamo nell`anno Heisei 18), seguono un`altra cronologia: il suo auspicio è che tutto il mondo abbandoni il cristianesimo, ma si continui ad usare il calendario cristiano vuotandolo di ogni contenuto simbolico!
Nel passato si è molto parlato di una Japanese Connection tra la filosofia occidentale e quella giapponese. Dalla fine dell`Ottocento fino al Postmoderno, ci sono molti esempi di convergenza tra questi due modi di pensare: per esempio il tradizionalismo universalistico (Okakura, Fenollosa e il nostro Elemire Zolla), la collaborazione negli anni Venti alla rivista Kaizo di Husserl, Russell e Dewey, la relazione tra Heidegger e Kuki Shuzo, l`influenza della filosofia tedesca sulla Scuola di Kyoto, il contributo di Imamichi e di Sasaki all`estetica, la convergenza tra Derrida e Karatani. Siamo perciò abituati a considerare i giapponesi come gli extraeuropei più vicini alla filosofia continentale. Questo libro d`interviste sradica completamente questa convinzione e testimonia l`aprirsi di una profonda frattura, di cui la questione cronologica è solo un piccolo indizio.
Non riesco a immaginare un filosofo occidentale, per quanto nichilista, che sost11a come Washida Kiyokazu, che per la specie umana sarebbe meglio non essere che essere, o che rifiuti per principio il dialogo perché viziato da una pregiudiziale platonica. Per Kobayashi Yasu nemmeno Hegel si sottrae al dialogismo, limitandosi a interiorizzarlo. Uno dei massimi intellettuali giapponesi, Yoshimoto Takaaki (il padre della scrittrice), ritiene che la chiarezza porti al declino: finché l`essere umano vive all`oscuro, non è ”fottuto”.
L`impressione di lontananza si accresce quando ci si accorge che nessuno di questi filosofi e intellettuali, pur dichiarandosi politicamente orientati a sinistra, riconosce un qualche minimo valore alle nozioni di progresso e di felicità. Uno Kuniichi sostiene che credere nel progresso è illusorio, e anche pericoloso, perché la condizione del mondo è oggi molto peggiore di quello che era cent`anni fa. Matsuba Shoichi pensa che in nessun periodo della storia come oggi si sia stata tanta infelicità: mai tanti uomini e donne sono stati vittime della fame e della violenza. Il progresso sarebbe un`idea giudeo-cristiana, che deriva da una concezione lineare della storia articolata sulla genesi e sul giudizio universale; successivamente questa idea è passata al positivismo e al marxismo. Minato Chihiro afferma che l`idea del progresso è connessa con l`evoluzionismo biologico per il quale la volontà di dominio sullo spazio dell`essere umano viene surrettiziamente identificata con l`acquisizione della posizione eretta e la lontananza dal suolo. Concede che esiste al massimo uno sforzo verso il progresso, ma questo è troppo debole perché ott11a risultati apprezzabili. Infine Kobayashi Yasu sostiene che il progresso riguarda solo la tecnologia, ma si tratta di qualcosa di molto pericoloso: è molto meglio l`infelicità che una felicità fornita dalla tecnologia, come per esempio, dall`invenzione di una cabina in cui si ricevono stimoli piacevoli e si può fare virtualmente tutto ciò che si vuole. Per Yoshimoto, la gaiezza segna il declino degli individui e delle società.
Non meno provocatorie suonano per un occidentale le idee espresse sulla libertà, la vita e l`individualità. La società attuale porrebbe una grande enfasi sull`idea della libertà perché questa sta scomparendo in Giappone non meno che in Occidente. Per Shingu Kazushige, l`idea di vita è una costruzione artificiale della scienza moderna: in Oriente non si considera la vita dell`individuo, della civiltà e della natura, come qualcosa di costante. Essa è nella sua essenza passeggera.
Il filosofo giapponese di questo volume che sembra più vicino alle problematiche discusse in Europa è Nishitani Osamu, il quale è l`unico ad essere intervistato per tre volte. Forse non a caso è il solo che conosco personalmente e la cui formazione intellettuale è molto simile alla mia (Blanchot, Bataille,). È partendo da questi autori che forse è possibile riallacciare i fili di una ricerca che coinvolga anche quanti sembrano più estranei alle problematiche occidentali. Infatti è intorno alle nozioni di impersonalità, di rito e di inorganico che si può ristabilire una nuova continguità tra il pensiero occidentale e quello nipponico. Come osserva giustamente Nishitani, l`essere umano è, già dall`inizio, plurale. Mentre la filosofia occidentale trova una grande difficoltà a desoggettivare l`esperienza individuale, perché le nozioni di soggetto e di individuo sono storicamente connesse, la parola giapponese ningen, che viene comunemente tradotta con ”essere umano, persona, uomo”, implica già da sola l`esistenza di un rapporto. Il termine ningen contiene due aspetti strettamente connessi tra loro: la dimensione individuale non è separabile da quella sociale. Il significato originario dei caratteri cinesi di ningen significano proprio l`esistenza di una relazione tra esseri umani vale a dire il ”pubblico”; solo con la trasposizione in lingua giapponese di questo ideogramma, esso ha acquistato anche il significato di essere umano individuale. Per questa ragione ningen non può essere considerato come sostanza: esso implica una interconnessione di azioni compiute da persone diverse. L`individuo non è mai una tabula rasa, ma presuppone una collocazione spazio-temporale, un condizionamento sociale. All`interno dell`individuo ci sarebbe già un punto di vista impersonale ed esterno, che è relazionale: con le parole di Lacan (che in Giappone è tradotto e studiato con molto zelo), si direbbe ”la mediazione del Simbolico”. D`altra parte la struttura negativa dell`essere umano impedisce l`esistenza di una società che annulla completamente l`individuo; una simile società collasserebbe.
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