Futurismo

MARIO PERNIOLA, L’oscurantismo del nuovo in “La Repubblica”, 14.1.2009   

È noto che il grande scrittore giapponese Mori Ōgai tradusse in giapponese il Manifesto del Futurismo di Marinetti, uscito sul giornale francese “Le Figaro” il 20 febbraio 1909,  poche settimane dopo la sua pubblicazione. Meno noto è invece che la sua versione adoperò caratteri d’origine cinese rari  già allora caduti in disuso. Più o meno inconsciamente, egli si attenne alla strategia di modernizzazione adottata dal Giappone nel 1868, secondo cui  questa deve avvenire attraverso una giustapposizione tra il nuovo e il vecchio, senza che i due termini opposti v11ano mai a conflitto. Paradossalmente un testo estremamente iconoclastico e sovversivo, che anticipa lo stile spettacolare e violento della pubblicità e della comunicazione massmediatica attuale, era trasformato in qualcosa la cui comprensione richiedeva la conoscenza del passato.
    Questo curioso episodio è per noi molto significativo perché ci induce a riflettere sulla china autodistruttiva e devastatrice presa dalla mentalità occidentale, quando ha cominciato a credere che il nuovo fosse per definizione migliore del vecchio. Tale convinzione, le cui origini affondano nel Barocco e nella sua esaltazione della meraviglia come precetto estetico primario, ha trovato il suo culmine nel Novecento, che appunto  è stato il secolo futuristico per eccellenza. Nel momento in cui la maggior parte del mondo si trova dinanzi alla necessità di modernizzarsi per non essere ancora una volta colonizzato dall’Occidente, vale la pena di mettere in dubbio il pregiudizio futuristico, secondo il quale la novità, solo perché tale, è a priori superiore a ciò che è già conosciuto e sperimentato. Ora non si tratta in nessun modo di sposare il tradizionalismo e il passatismo, ma soltanto di chiedersi come la versione traviata della modernità e del progresso, sostenuta da Marinetti  con “violenza travolgente e incendiaria” (secondo le parole del suo Manifesto) sia potuta diventare egemonica, relegando nelle anticaglie e nei vecchiumi non solo il sapere, ma perfino la coerenza e la logica.
    Giova sottolineare che questo tralignamento non è affatto una conseguenza del pensiero moderno. Il Rinascimento è stato in tutte le sue manifestazioni un ritorno alla cultura antica e della sua concezione del mondo. Anche la Riforma si è configurata come un ritorno alle fonti della religiosità. Quanto alle Rivoluzioni politico-sociali per eccellenza, quella americana e quella francese, esse iniziarono come restaurazioni dell’ “antico ordine di cose” contro i soprusi del governo coloniale inglese e contro il dispotismo della monarchia francese. Marx esortava a non considerare Hegel come un “cane morto” e la psicoanalisi è basata sui miti dell’antica Grecia. Perfino Guy Debord, che passa come uno dei più radicali ispiratori della contestazione studentesca del Sessantotto, è intriso di cultura classica e non è mai venuto meno nella sua vita come nei suoi scritti al “grande stile” degli antichi e dell’animatore della Fronda, de Retz.
     Il futurismo è stato una forma di oscurantismo al massimo grado aggressivo, che ha contagiato per tutto il Novecento tutti i movimenti di massa e fuorviato non pochi leader politici. Oggi, la sua eredità mi sembra che si manifesti soprattutto nell’antipolitica del “Vaffanculo!”, la quale costituisce un fenomeno molto differente dal populismo, dal qualunquismo e dal moltitudinismo: questa è connessa più con la bolla futuristica derivante dall’uso aberrante di Internet che con qualsiasi tipo di ideologia. Al neofuturismo degli “incazzati in pigiama” è ancora preferibile il “no future” del movimento Punk.  
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