L`eterno Confucio

MARIO PERNIOLA, L’eterno Confucio, in “Il Manifesto”, 22.1.2009
    Nel breve periodo dei due ultimi anni sono usciti in francese e in inglese almeno una ventina di libri su Confucio e specialmente sul neo-confucianesimo. L’Occidente recepisce così con  molto ritardo una tendenza che si è manifestata in Cina ai primi degli anni Ottanta come reazione alla “Rivoluzione culturale” ed è cresciuta enormemente nel corso dei decenni successivi anche con la creazione dei “Centri Confucio”, sparsi in tutto il mondo: questi nel prossimo avvenire dovrebbero raggiungere il numero di cento. Difficile è orientarsi in una produzione così vasta, non solo per la barriera linguistica: nel corso degli ultimi dieci anni in Cina sono usciti su Confucio almeno trecento libri più di diecimila saggi pubblicati su riviste!
    Si può dire che oggi Confucio è considerato come il pilastro della cultura cinese, il punto di riferimento  indispensabile per affermare la sua identità nazionale. Infatti, la Cina si sente come un gigante economico, che si accorge di essere diventato, in seguito alla globalizzazione, un nano culturale: basti pensare che nel Novecento sono state tradotti in cinese 1.068.000 libri scritti in lingue europee (compreso il nostro Vico e molti altri autori italiani), contro solo 3000 titoli cinesi tradotti in lingue europee nelle ultime centinaia di anni! Non vi è dubbio che i cinesi ci conoscono infinitamente meglio di quanto noi conosciamo loro.
    Un primo orientamento su questa materia è fornito dal volume collettivo La pensée en Chine aujourd’hui (Paris, Gallimard) curato da Anne Ch11, l’autrice della fondamentale Storia del pensiero cinese (2 volumi, Torino, Einaudi, 2000), testo il cui studio è imprescindibile per chiunque voglia parlare della cultura cinese con una minima conoscenza di causa. Il nuovo libro, curato dalla Ch11, di quasi cinquecento pagine, fitto di note che rimandano direttamente alle fonti cinesi, è articolato in tre parti. La prima riguarda il complesso rapporto tra gli intellettuali cinesi di oggi con la loro plurimillenaria tradizione. La seconda esamina tre aspetti assai controversi della cultura cinese. la filosofia, la religione e la medicina tradizionale. La terza affronta le questioni di identità connesse alla scrittura, alla lingua, alla mentalità, alla scienza.
    Due sono le grandi problematiche che dominano negli ultimi trent’anni la scena culturale cinese: il problema della modernizzazione e la rilettura del passato.  Esse non sono nuove. La prima risale alla seconda metà dell’Ottocento: sorge nel momento in cui i cinesi sono costretti ad ammettere che il loro paese non è il centro del mondo, ma una nazione come le altre. La seconda rappresenta una costante della storia della Cina, a partire dal passaggio dai tempi mitici a quelli storici duemilacinquecento anni fa. Relativamente nuove sono invece l’urgenza e la difficoltà di trovare una strada che riesca a conciliare la tradizione con l’innovazione. Molti  cinesi nei primi anni del Novecento videro nel Giappone il modello socio-politico e culturale che avrebbe consentito al loro paese di uscire dall’arretratezza e dal sottosviluppo senza scosse drammatiche. Tuttavia il modello giapponese, basato sulla coesistenza e giustapposizione  del vecchio e del nuovo, del passato e del presente, non riuscì ad affermarsi Nel 1911 il millenario impero cinese crollò, e il Movimento del 4 maggio 1919 fece proprio lo slogan “Abbasso la bottega di Confucio!”. L’occidentalizzazione del paese avvenne attraverso il marxismo. La Rivoluzione culturale, promossa da Mao nel 1966, fu condotta all’insegna del progetto di “spazzare via i quattro vecchiumi” (vecchie idee, cultura, abitudini e comportamenti) fu violentemente anti-confuciana. Gli intellettuali furono definiti la “nona categoria puzzolente” e in Cina, come in tante altre parti del mondo, avvenne una frattura generazionale di proporzioni estremamente rilevanti.
    Ciononostante il confucianesimo (parola occidentale che traduce  i termini cinesi ruxue, rujia e anche rujiao, i quali indicano con varie sfumature la cultura dei ru, cioè dei letterati) non scomparve nel corso del Novecento, la cui storia culturale non può prescindere dall’esistenza di ben quattro generazioni di pensatori neo-confuciani: la prima rappresentata da Liang Shuming, che rimase in Cina e vide la propria biblioteca bruciata dalle guardie rosse, la seconda e la terza appartenenti alla diaspora cinese a Taiwan, Hong-Kong e negli Stati Uniti. In questi ultimi anni si sta delineando una quarta generazione neo-confuciana anche in relazione con i Cultural Studies e all’interrogativo intorno ai caratteri specifici della “cinesità” (sinité). Infatti alla “febbre culturale” (wenhuare) degli anni Ottanta è seguita una seconda fase, la cosiddetta “febbre degli studi nazionali” (guoxuere), nella quale le ricerche sul confucianesimo hanno trovato un nuovo  straordinario slancio. In particolare l’anno 1999 e l’anno 2004 (supposti anniversari della nascita di Confucio) hanno visto uno fiorire di studi e di iniziative editoriali di grande respiro. Why Confucius now? si chiede William Theodore de Bary, Provost Emeritus della Columbia University.
    L’impressione che si riporta dalla lettura dalla recentissima letteratura francese ed americana sul pensiero cinese (la quale ha raggiunto un grado di raffinatezza filologica ed ermeneutica elevatissimo) è che  il problema della modernizzazione, cioè del nuovo come migliore del vecchio, resta irrisolto: le tre principali opzioni - il nazionalismo, il marxismo e il pragmatismo - continuano a combattersi o a collegarsi in modo incongruo, senza che si riesca a capire chi riuscirà vincitore.
    La questione della modernizzazione è strettamente connessa a quella della rilettura del passato, non solo per quanto riguarda la rivalutazione di pensatori ignorati alla loro epoca, come  il grande filosofo della storia  Wang Fuzhi (1619-1692), cui è dedicato il primo capitolo del libro della Ch11,  ma anche per il giudizio questioni su assolutamente centrali, come la valutazione dell’ultima dinastia imperiale  (quella Manciù dei Qing), il carattere fonico o ideografico della scrittura cinese, il significato dell’invenzione della religione (e delle nuove religioni) nella Cina del Novecento,  la compatibilità tra la scienza occidentale e la medicina tradizionale cinese, la permanente tensione tra ritualismo e legismo (che risale all’antichità e segna tutta la storia della Cina) e tra ritualismo e moralismo (che è una conseguenza dell’influenza del protestantesimo), il rapporto tra la madre patria e la diaspora cinese, il dibattito sui “valori asiatici” opposti all’immoralismo e al nichilismo occidentale. Tra tante teorie opposte sul presente e sul passato, si capisce meglio come la preoccupazione principale dei dirigenti cinesi sia quella di mantenere unito un paese di un miliardo e trecentomilioni di abitanti che ha al suo interno minoranze appartenenti ad altre lingue, tradizioni e culture. Ora l’icona di Confucio rappresenta questo collante, anche se essa indica cose che ad un occhio occidentale paiono non solo diverse, ma opposte ed inconciliabili tra loro.

 

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