Una falsa polemica
Secondo il grande sociologo tedesco Georg Simmel, un amore, che dà tutto
e subito, si consuma molto presto, mentre è importante non solo
ottenere nell’immediato, ma anche aspettare di ricevere qualcosa
d’interessante nell’avvenire. Sicché l’amore che vuol durare, deve
essere simile a un caleidoscopio in cui si vede ogni volta qualcosa di
differente. La stessa cosa vale per l’amicizia, che è una specie di
amore senza sesso. Le amicizie più sicure sono quelle in cui la
trasparenza non è intesa come qualcosa di assoluto, ma implica
l’indistinzione di molti aspetti del modo di essere della persona con
cui si è in rapporto.
E’ questa la prima considerazione che mi viene in mente leggendo
l’articolo di Franco Berardi Bifo Un falso Perniola (Alfabeta2, n.SWE
febbraio 2012), il quale, recensendo il mio pamphlet Berlusconi o il ’68
realizzato (Milano, Mimesis, 2011), contrappone il mio modo di essere
di quarant’anni fa a quello di oggi. Al contrario, se io ripubblico tale
e quale un testo scritto nell’estate del 1971, nel 1998 e nel 2005 (I
situazionisti, Roma, Castelvecchi) senza apportarvi alcuna variazione, e
questo è tradotto in spagnolo nel 2008, in portoghese nel 2009 e in
tedesco nel 2010, vuol dire che sono sempre lo stesso e che il Perniola
di oggi non è diverso da quello di quarant’anni fa.
Nella recensione di Bifo si manifesta quello spirito dandistico,
ironico e anti-dogmatico che ci accomuna. Né lui, né io nutriamo il
sentimento tragico della vita, e pur riconoscendoci nello spirito
battagliero del guerriero, siamo alieni dallo spirito settario e
fanatico di chi emana condanne e pronuncia anatemi. Infatti, la guerra e
l’odio son due cose molto diverse, che sciaguratamente le religioni e
le ideologie troppo spesso hanno collegato, con risultati nefasti e in
ultima analisi controproducenti per quanto riguarda l’esito dei
conflitti.
Ciò non esclude che nella condotta della guerra ci siano tra Bifo e me
divergenze strategiche profonde. Io non credo che il ’68 sia una
bandiera da sventolare oggi, specie dopo gli studi di Jean-Pierre Le
Goff, Mai 68: l’héritage impossible (Paris, La Découverte, 1998, pp.
496) e di Luc Boltanski e Ève Chiappello, Le nouvel esprit du
capitalisme (Paris, Gallimard, 1999, pp. 848), che hanno reso evidente
la connessione tra il ’68 e il capitalismo neoliberale. In particolare
quest’ultima opera molto voluminosa ha mostrato che il capitalismo non è
per nulla “dogmatico”, ma ha una tendenza costante a trasformarsi. Si
tratta di una tesi ampiamente esposta e discussa in italiano dieci anni
fa, nel n. 3 della rivista “Ágalma” (giugno 2002). Il riferimento ad
essa si trova nell’ampia bibliografia al fondo del mio libro, che Bifo
giudica troppo breve e addirittura “minuscolo”! Ma questa è una
questione tattica e non strategica, sulla quale ho sempre seguito il
precetto di Gracián: “Ciò che è buono, se è breve, è buono due volte; e
anche il cattivo, se è poco, non è tanto cattivo. Più valgono
quintessenze che farragini”. E poi tutti i generi vanno bene, tranne
quello noioso!
Che il ’68 abbia avuto intenzioni esattamente opposte a quelle del
capitalismo neoliberale, non vi è dubbio! Ma bisogna essere molto
ingenui per non sapere che di buone intenzioni è lastricata la via
dell’inferno, come dice il proverbio citato anche a Marx nel Capitale
(vol. I, Parte III, capitoloFRA Sezione 2). Giustamente insieme a
Nietzsche e a Freud, egli è stato considerato “un maestro del sospetto”.
Già Hegel chiamava “astuzia della ragione” il fatto che quest’ultima
faccia agire per sé le passioni, col fine di raggiungere scopi
completamente diversi e perfino opposti. Infine Dilthey sosteneva che la
vita non è qualcosa il cui significato possa essere colto
immediatamente mentre si vive: solo gli storici e gli scrittori
ricostruendo il passato gli conferiscono un senso. Perfino Renato
Curcio, fondatore delle Brigate Rosse, in una conversazione che ho avuto
con lui tempo fa, mi disse che il suo compito consisteva nel fornire
delle testimonianze (nei tre volumi Progetto memoria, Roma, Sensibili
alle foglie, 1995), mentre la ricerca del senso di ciò che era accaduto,
sarebbe stato compito degli storici.
Venendo all’essenziale, la differenza fondamentale tra la posizione di
Bifo e la mia è sempre consistita in una diversa scelta strategica nei
confronti dell’eredità culturale dell’Occidente: per me questa non deve
essere demolita, come vuole l’oscurantismo neoliberale. L’impegno della
politica culturale cinese da trent’anni a questa parte è consistito nel
riappropriarsi dell’insegnamento di Confucio e del confucianesimo
chiudendo definitivamente la parentesi della cosiddetta “Rivoluzione
culturale”. C’è una carta geografica di un atlante inglese in cui Guy
Debord, che era una persona veramente dignitosa, traccia la geografia
della sua formazione culturale: che cosa vi trovate? Omero, Tucidide,
l’Ecclesiaste, Orazio, Svetonio e poi i classici moderni da Dante a
Shakespeare, da Villon a Bossuet, da Machiavelli a Clausewitz: l’autore
che forse più l’ha influenzato è, come mi scrisse in una lettera del
1968, il cardinale di Retz, sul cui grande stile secentesco ha modellato
la sua prosa.
Infine possiamo consentire che nostri discendenti facciano proprio lo
slogan degli studenti messicani del ’68: “Nati per essere vinti, ma non
per negoziare?” Come tutti i veri guerrieri, io mi auguro che dicano:
“Nati per vincere, ma non per odiare”.
Roma, 14 febbraio 2012
Mario Perniola