Milano, Expo 2015

L’età dello spettacolo e il trionfo delle merci

in “La Repubblica”, 8 aprile 2008

    Man mano che l’intera società, nel corso degli ultimi decenni, è diventata un’immensa accumulazione di spettacoli e un’offerta sterminata d’ogni genere di merci, le esposizioni internazionali hanno perduto l’impatto immaginativo e il significato educativo che avevano avuto all’inizio della loro storia e che erano riuscite a conservare per più di un secolo:  nonostante l’aumento del numero di espositori e di visitatori e l’estensione all’intero pianeta della loro risonanza mediatica, si è venuta via via dissolvendo la capacità di suscitare emozioni e considerazioni originali.
    Com’è noto, la storia delle Esposizioni Internazionali si articola in tre periodi: gli esordi, dalla Great Exhibition di Londra nel 1851 all’Exposition des Arts et Techniques dans la Vie Moderne  di Parigi nel 1937, focalizzati sull’espansione del commercio e dell’industria, nonché sulla presentazione al pubblico di invenzioni tecniche; l’età di mezzo, dalla New York World`s Fair del 1939 alle numerose esposizioni specializzate degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, caratterizzate  da un’impronta futuristica e utopistica; la fase attuale, inaugurata dall’Exposición Universal de Sevilla del 1992, che si propone come un grande evento d’impatto globale in funzione tuttavia della promozione economica di una singola nazione e città.
     Lo scrittore tedesco Walter Benjamin ha colto l’ambiguità implicita fin dall’inizio in questo genere di eventi. Essi sono stati un’invenzione dei seguaci del socialismo utopistico di Saint-Simon, ma nello stesso tempo hanno costituito luoghi di pellegrinaggio e di venerazione del feticismo economico. Da un lato celebrano l’ingegno e la creatività del genere umano, dall’altro rafforzano e consolidano i processi di alienazione e di reificazione.   
     Le prime due fasi hanno ispirato riflessioni originali, hanno rappresentato una fonte d’ispirazione per artisti, letterati e registi e sono entrate a far parte della storia culturale dell’età in cui si sono svolte. Le Expo che appart11ono a questi periodi presentano affinità con l’idea dell’opera d’arte totale,  intesa come sintesi di tutte le arti e i saperi in un unico grande evento capace di continuare ad interessare le generazioni future. Del Crystal Palace della prima esposizione londinese si sono occupati non solo illustri autori dell’epoca, ma perfino scrittori contemporanei, come il romanziere Alessandro Baricco e il filosofo Peter Sloterdijk. Le esposizioni parigine sono diventate leggendarie non solo per la costruzione della Tour Eiffel (1889), per il Cinéorama (1900), ma anche per un rapporto indiretto con le delegazioni operaie e perfino col marxismo. La Panama-Pacific International Exposition (1915) di San Francisco, organizzata per testimoniare la rinascita della città dopo il terribile terremoto del 1906, e fornire  un esempio di magnificenza pubblica presentò la curiosa caratteristica di essere articolata in due parti: una ufficiale e un’altra alternativa, chiamata The Joy Zone; essa inoltre costituì il punto di riferimento essenziale dell’opera dell’artista outsider Achilles G. Rizzoli. L’impatto immaginativo e futuristico della World’s Fair di New York del 1939  e della 1967 International and Universal Exposition di Montrèal, resta vivo fino ad oggi nella cultura popolare dei fumetti e nel cosiddetto “retrofuturismo”.  
    Sembra più difficile attribuire alle Expo più recenti lo stesso rilievo: esse sono minate da una contraddizione tra i temi d’importanza mondiale che pretendono di affrontare e l’enfasi neonazionalistica e concorrenziale rispetto ad altre nazioni, che offusca e intorbida le idealità da cui la stessa idea di esposizione universale è nata.
    L’ambiguità rilevata da Benjamin risulta anche nel tema dell’Expo 2015 di Milano, Nutrire il Pianeta. Energia per la vita. Questo assunto è molto interessante, perché, liberato dal suo involucro retorico, edificante e caritatevole, tocca il punto nevralgico dell’esperienza attuale: l’incontro tra l’organico e l’inorganico, tra l’antropologico e il tecnologico, tra la pulsione di vita e l’astrazione della merce, tra la corporeità umana e il modo di  essere delle cose. Con le parole di Benjamin, si potrebbe dire che più che mai l’Expo 2015 si presenta come il “sex appeal dell’inorganico”. Deve quindi affrontare una sfida assai più ardua di quella che ha vinto con l’assegnazione da parte dell’International Exhibitions Bureau. Si tratta di mostrare che è possibile trovare un luogo d’incontro tra il miglioramento della condizione umana e la logica del capitalismo, tra la qualità della vita e il profitto economico, tra il riconoscimento delle eccellenze e il mondo della comunicazione.
    L’ipermoralisno, che si rifiuta di considerare come cose dotate di un valore di scambio  i prodotti e le attività  della  cultura disinteressata, produce effetti altrettanto oscurantisti, quanto il cinismo che attribuisce un prezzo solo a ciò che risulta immediatamente funzionale rispetto alla speculazione economica e allo sfruttamento. Il valore simbolico non è necessariamente in opposizione al valore economico. Lo storico delle istituzioni indo-europee Emile Benveniste ha mostrato che  alle origini della civiltà greca il sorgere dell’economia monetaria consente di sottrarre l’essere umano alla pura violenza e al cieco dominio. Perciò se da un lato non bisogna mistificare l’Expo presentandola come un’operazione umanitaria, dall’altro non si deve nemmeno demonizzarla come una manifestazione del grande Satana capitalistico. Il gioco è appena cominciato: occorre rendersi conto che oggi ci si muove in un contesto estremamente più complesso  di quello in cui sono state realizzate le Expo dei primi centotrent’anni della loro storia: molte forze finanziarie, politiche e  tecnologiche cooperano verso una destabilizzazione completa di ciò che finora è stato inteso come educazione, cultura e civiltà. L’ipocrisia e il cinismo sono due modi opposti, ma coincidenti per stare dalla parte della barbarie.

 

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