BIBLIOCLASTIA 2

In Cina le cose sono andate molto diversamente: la figura di Confucio ha continuato ad essere presente nella mente di Mao ricomparendo nell`estate del 1973, associato a Lin Biao. Questi, designato nel 1969 quale successore di Mao, era in seguito caduto in disgrazia per avere assunto una posizione contraria al dialogo con gli Stati Uniti che aveva portato la Cina ad occupare nell`ottobre del 1971 il seggio permanente nel consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite prima tenuto dal governo di Taiwan. Secondo fonti ufficiali, il figlio di Lin Biao, Lin Liguo, programmò con l`appoggio di settori delle forze armate il Piano 571 (in cinese i numeriFRAGER 10 hanno la stessa pronuncia dei termini che vogliono significare «sollevazione armata») che avrebbe dovuto assassinare Mao bombardandone il treno che lo portava a Pechino di ritorno dalla Cina meridionale. Certo è che Mao prevenne questa congiura precipitandosi in aereo a Pechino: Lin Liguo, sentendosi perduto fuggì con suo padre e sua madre (la celebre Yen Qun, soprannominata `la dama elegante`) in aereo verso l`Unione Sovietica. Ma l`aereo precipitò il 13 settembre sui monti della Mongolia, probabilmente per mancanza di carburante. L`evento altamente drammatico ebbe pesanti conseguenze all`in- terno del gruppo dirigente; sul piano ideologico, esso portò al discredito della Rivolu- zione culturale degli anni precedenti. Lin Biao venne descritto come un estremista di sinistra. Zhou Enlai ebbe un ruolo rilevante nella messa sotto accusa del sinistrismo estremo e dell`anarchismo dei primi anni della Rivoluzione culturale, incarnati nella figura di Lin Biao. Nel 1972 fu promotore di un`iniziativa rivolta a permettere a tutti, la lettura dei classici cinesi, proibiti dalla Rivoluzione culturale, ma disponibili nella più grande libreria di Pechino solo agli stranieri e ai dirigenti superiori del partito: in due mesi ne furono vendute duecento mila copie. Strano che ai nostri filo-maoisti di Servire il popolo (titolo del giornale dell`«Unione Comunisti italiani – Marxisti Leninisti») non sia venuto in mente di proibire ai loro militanti l`acquisto e la lettura di Ariosto o di Manzoni! Avrebbero recato alla cultura italiana un contributo molto maggiore della distribuzione del Libretto Rosso di Mao, perché è noto che proibendo qualcosa, la si rende desiderabile. Tra il gennaio e febbraio del 1972 furono pubblicate addirittura le prime traduzioni di libri stranieri (qualche romanzo russo e una scelta degli scritti del presidente americano Nixon!) e l`anno successivo traduzioni di testi di letteratura, arte, filosofia e scienze sociali. Questa molto cauta e limitatissima liberalizzazione suscitò da un lato la reazione di alcune vecchie guardie rosse, che non esitarono a definire `opere oscene` il Conte di Montecristo di Alexandre Dumas o Il giovane Holden di Salinger, dall`altro incoraggiò dissidenti solitari a scrivere, a stampare e ad inviare per posta alle università o ai dirigenti testi apertamente anti-maoisti, come i Dieci atti di accusa contro la Grande rivoluzione culturale dell`ingegnere Tu Deyong, membro del Partito Comunista Cinese da vent`anni o i volantini dell`operaio Shi Yunf11 contenenti una critica radicale della Rivoluzione culturale: il primo fu condannato all`ergastolo e il secondo a morte, eseguita in modo atroce.
La reazione a questo relativo `disgelo` non mancò di manifestarsi in un modo davvero bizzarro nel 1973 con lo slogan Pi-Lin Pi-Kong (criticare Lin [Biao], criticare Confucio). Lin, fino allora criminalizzato come estremista di sinistra diventava improvvisamente un ultrareazionario di destra, attraverso questo collegamento con Confucio! Che cosa queste due figure avevano in comune per alcuni dirigenti cinesi? Il fatto di rappresentare un`ossessione da cui era impossibile liberarsi. Infatti ripudiare Confucio voleva dire sconfessare l`intera tradizione plurimillenaria cinese, compresi i cinque o sei Classici, le cui origini si perdono nella più remota antichità (dei quali Confucio si era considerato solo come l`interprete) e quindi riconosce- re che anche la Cina era stata colonizzata dal pensiero occidentale nella forma del marxismo. Criminalizzare Lin Biao, fedele esecutore delle scelte di Mao per quat- tro decenni al punto di essere proclamato ufficialmente nei documenti del partito come suo successore, voleva dire rinnegare la Grande Rivoluzione comunista cinese che, con la fondazione della Repubblica Popolare Cinese (1° ottobre 1949), aveva consentito al paese di sottrarsi definitivamente al colonialismo euro-americano. Da questo dilemma si trovò una via d`uscita l`anno successivo, nel 1974 con un nuovo slogan: «Criticare il confucianesimo, rivalutare il legismo». Per comprendere questo cambiamento bisogna sapere che il legismo era stata la dottrina politica che fin dal III secolo a.C. aveva combattuto il confucianesimo: mentre quest`ultimo sosteneva che bisognava governare attraverso i riti, la musica e la rettificazione dei nomi, il legismo, teorizzato da Han Feizi (morto suicida nel 233 a.C.) affermava che solo la legge con un`esatta determinazione dei castighi, era in grado di mantenere l`ordine e garantire la prosperità. In effetti, l`unificazione dell`Impero cinese compiuta dal primo imperatore Qin Shi Huang nel 221 a.C., era avvenuta all`insegna delle tre idee maestre del legismo (legge, posizione di forza, tecniche di controllo) e sotto l`ispirazione del pensatore legista Li Si, il quale per ironia della sorte fu a sua volta condannato a morte per squartamento nel 208 a.C.!
Risulta chiaro da queste vicende come la questione degli intellettuali abbia in Cina un retroterra culturale da un lato estremamente complesso e dall`altro straordinariamente ripetitivo attraverso i millenni. Come non associare il destino di Li Si a quello di Lin Biao, avvenuto più di duemila anni dopo, in conformità a un`unica logica di potere? Certo è che a partire dal 1974 lo studio del confucianesimo ritrovò un significato politico di primo rilievo con esiti talora comici: per criticare Confucio, bisognava conoscerlo! Il gruppo di ricerca messo in piedi a questo scopo era composto da studenti che non avevano nessuna competenza in proposito. Vennero perciò riabilitati quegli stessi professori `borghesi` che erano stati criminalizzati durante la Rivoluzione culturale, perché erano gli unici ad avere le cognizioni e l`erudizione classica necessarie a tale scopo! Qualche volta il sapere è potere, anche se solo per distruggere la memoria di un politico e per attaccare indirettamente Zhou Enlai e D11 Xiaoping, attribuendo loro la qualifica di `confuciani`. Infatti la campagna contro Lin Biao si trasformò in un attacco contro `i confuciani di oggi` fuori e dentro al partito. Nel frattempo era saltata fuori anche la terza grande corrente filosofica della Cina antica, l`empirismo, il cui iniziatore nel IV secolo a.C. fu Mozi (cioè, maestro Mo), che aveva sostenuto il criterio dell`utilità contro la tradizione rituale. Secondo il moismo, l`essenziale è la ri- uscita: non c`è alcuna azione che valga per se stessa o che abbia il proprio fondamento nella soggettività. Anche questa tendenza anti-confuciana rappresenta una costante della cultura cinese: non a caso il filosofo americano John Dewey (1859-1952), uno dei principali esponenti del pragmatismo, nel suo lungo soggiorno in Cina tra il febbraio 1919 e il settembre 1921, aveva cercato di farla rivivere come opzione politica. È molto significativo che sia proprio D11 a riprenderla in modo emendato e rivisto in una sua conversazione del 1975: l`empirismo forse non è buono, ma l`esperienza sì!
Mutatis mutandis, è come se i politici italiani discutessero se è meglio lo stoicismo, l`epicureismo o lo scetticismo e promuovessero studi più o meno tendenziosi su queste tre grandi correnti della filosofia ellenistica. Quando qualcuno tira fuori la questione dell`impegno e della responsabilità dei nostri intellettuali, mi viene da ridere per due ragioni. La prima è che questi intellettuali che si lamentano di non contare nulla, non corrono alcun pericolo, mentre in Cina passano dalle stelle alle stalle e viceversa con incredibile rapidità. La seconda è che nessuno si interroga sulla responsabilità filosofi- ca del nostri politici: penso che, come i correttori di bozze improvvisati, confondano nel migliore dei casi, lo stoicismo con lo storicismo (perché forse da giovane qualcuno ha fatto una domanda di borsa di studio all`”Istituto Benedetto Croce” di Napoli!).
Le ultime vicende prima della morte di Mao, il 9 settembre 1976, non sono semplicemente una lotta tra le varie fazioni per la successione al `Grande Timoniere`. Gli incidenti di Piazza Tienanmen del marzo-aprile 1976 e altre proteste in altre parti della Cina, rivelano l`insofferenza della maggior parte dei cinesi di fronte alla possibilità del ripetersi di altre `rivoluzioni culturali`. Questa è condivisa anche da una larga parte della classe dirigente del partito e dell`esercito. Ciò spiega la rapidità con cui si consolida il potere di D11 Xiaoping, all`insegna dello slogan «la pratica è l`unico criterio della verità». La fazione più estremista, nota come `la banda dei Quattro`, capeggiata dalla moglie di Mao, Jang Qing, è arrestata il 6 ottobre e messa sotto processo. La sentenza è già scritta: due condanne a morte commutate all`ergastolo e una condanna a trenta anni di prigione e un`altra a venti anni. Com`è noto, la moglie di Mao si uccise in ospedale nel 1991. Colpisce la drammaticità degli avvenimenti cinesi che pongono fine alla Rivoluzione culturale: iniziata nel 1966 con lo slogan po- litico «eliminare i quattro vecchiumi» (frase che all`inizio nessuno sapeva cosa voleva dire) finisce con un`azione di polizia militare (che desta un turbamento collettivo non minore dell`eliminazione di Lin Biao, specie a Shanghai, dove la `banda dei quattro` aveva un forte sostegno nel locale Comitato Rivoluzionario).
In italia le cose sono andate diversamente: la divisa sessantottesca «eliminare tutti i vecchiumi» ha avuto il risultato di eliminare quanto di moderno si era creato in cento anni di storia! Dai primi anni Ottanta questa liquidazione della modernità si fregia di un nome altisonante: il `postmoderno`. Il `pensiero debole` trova almeno una sponda di ascolto, se non di influenza, nella politica, perché questa si sente finalmente autorizzata ad essere ignorante, a mettere in soffitta la teoria, a dire e a disdire, a fare e a disfare senza tenere più in considerazione non dico la coerenza, ma nemmeno la logica, in altre parole a fare della `comunicazione`.
In ultima analisi il pensiero debole è stato il vero pensiero `organico` degli intellettuali italiani degli anni Ottanta, non nel senso che ha istruito o consigliato i politici dell`epoca, ma proprio al contrario, perché ha cominciato a liberarli da ogni condizionamento, non dico teorico, che sarebbe veramente troppo, ma logico, esonerandoli dal principio di non-contraddizione, facendo loro credere (no! Questa parola è troppo per loro, perché suppone che potessero essere in grado di credere in qualcosa!) perciò correggo, facendo loro fiutare che questa era la tendenza generale della società il quale autorizzava la loro incoerenza, il loro opportunismo, la loro ignoranza, che accordava loro il diritto di mettere in soffitta Gramsci, e tutti quegli insopportabili `Soloni` della sinistra che ancora sproloquiavano sulla razionalità della storia, sulla lotta di classe e sulla `vecchia talpa` (metafora adoperata da Marx con riferimento alla rivoluzione). E tutto questo avveniva proprio in nome di una nuova `filosofia della storia`, secondo la quale si stava aprendo una nuova età definita `postmoderna`, nella quale si poteva dire contemporaneamente tutto e il contrario di tutto! Negli stessi mesi in cui in Cina era lanciata una campagna contro `l`inquinamento spirituale` in nome del marxismo-leninismo, in italia si trovava un modo scaltro di passare per progressisti (il postmoderno non è più progressivo del moderno? Infatti, viene dopo), infischiandosene non solo della dialettica di Hegel, ma perfino della logica di Aristotele!
Gli anni che vanno dalla morte di Mao (1976) al 1989 sono noti come l`epo- ca del disgelo intellettuale, della febbre culturale, dell`illuminismo post-maoista, del ritorno all`armonia confuciana e così via. Certo è che gli intellettuali, definiti dalla Rivoluzione culturale maoista «la nona categoria puzzolente», diventano insieme agli operai e ai contadini «la spina dorsale della nazione»: viene finalmente espressamente riconosciuto che, dacché è stata inventata la scrittura, nessuno stato ha mai potuto funzionare senza il concorso di un gruppo d`intellettuali specializzati. La teoria del- le `tre rappresentatività` (operai, contadini, intellettuali) di D11 Xiaoping, è con- nessa col progetto di uno stato socialista con caratteristiche cinesi. Non a caso, nel trentennio 1980-2010 escono in Cina trecento libri e diecimila saggi su Confucio. Come questa rivalutazione debba essere tradotta in termini operativi, è tuttavia estre- mamente controverso. Si assiste dopo il 1980 ad un pullulare di riviste, d`iniziative culturali, di traduzioni dalle lingue straniere, in parte autorizzate, talvolta illegali, con un`alternanza di aperture e di chiusure, di concessioni e di repressioni, la cui logica è molto complessa e suscettibile di opposte interpretazioni. Per esempio, come deve essere valutata la comparsa nella letteratura, nel cinema, nella sensibilità collettiva, di prospettive individualistiche estranee alla tradizione culturale cinese (e certamente a quella confuciana)? Secondo un importante storico e filosofo cinese, esiste tra il marxismo e il confucianesimo un`affinità elettiva che consiste nel fatto che entrambe queste filosofie tendono a mettere tra parentesi la soggettività. Naturalmente questo fatto può essere giudicato positivamente o negativamente, a seconda dei punti di vi- sta. Per Li Zehou, ritenuto il più importante pensatore cinese degli ultimi trent`anni, il maoismo non ha niente che fare con Marx e semmai affonda le sue radici nella tradizione cinese. Secondo Sor-hoon Tan, una filosofa di Singapore che ha studiato con grande rigore filologico i testi confuciani, il pensiero politico di Confucio sarebbe invece affine alla nozione di democrazia di John Dewey, che, come si è detto, aveva dimorato in Cina nei primi anni Venti riportando un grande successo e dando vita ad una corrente politica. Certo è che durante il ventennio precedente ai fatti di Piazza Tienanmen del 4 giugno 1989, la distinzione tra gli intellettuali interni al sistema e quelli dissidenti era molto fluida. Senza voler minimamente giustificare la repressione violenta del movimento degli studenti, esiste un`impressionante continuità tra il movimento del 4 maggio 1919, la rivoluzione culturale maoista (1966-1976) e la protesta studentesca del 1988-89, culminata con l`eccidio del 4 giugno 1989, tutti all`insegna del rifiuto della mediazione culturale confuciana. Sebbene molti intellet- tuali fossero stati accusati di aver fomentato la rivolta, è ormai riconosciuto che essi avevano cercato piuttosto di fermare gli studenti, ma non furono ascoltati da loro. Sia dalla parte del potere, che temeva che la Cina si disgregasse (come sarebbe avvenuto un paio d`anni dopo alla Jugoslavia e all`Unione Sovietica), sia dalla parte degli stu- denti, in preda ad un infantilismo spontaneistico simile a quello parigino del maggio 1968, prevalsero le tendenze più estremistiche, ricacciando ancora una volta molti intellettuali in un vicolo cieco, in cui rimasero per i decenni successivi, costringendo molti di loro all`esilio.
Il contributo teorico più rilevante della vittoria del confucianesimo in Cina mi sembra l`importanza assegnata all`idea di qualità (suzhi). Secondo Luigi Tomba, un sinologo australiano molto attento alla complessità della società cinese attuale, questo termine non deve essere inteso come un ennesimo slogan ideologico, ma è la nozione intorno cui ruota un vasto processo di civilizzazione della società cinese attuale, che riguarda tutti gli aspetti della vita materiale e spirituale. Compaiono nozioni estetiche per eccellenza come stile di vita, educazione alla civiltà, gentilezza, magnanimità e così via. In altre parole, si starebbe realizzando in Cina qualcosa di analogo a ciò che il sociologo tedesco Norbert Elias (1897-1990) ha definito con riferimento alla nascita della modernità occidentale: la civiltà delle `buone maniere`. Essa non è qualcosa di superficiale e convenzionale, ma implica un lungo e difficile cammino di raffinamento e di perfezione interiore, basato sul controllo delle emozioni e sulla padronanza dei codici formali e simbolici. L`immagine del cosiddetto «cittadino cinese di qualità» ricalca il modello della nascita del borghese a partire dal Rinascimento. I manuali di `autocoltivazione` ricordano i nostri galatei del Cinquecento e del Seicento.
Qui si va veramente alla radice del pensiero di Confucio, che riguarda lo stretto le- game esistente tra la perfettibilità dell`essere umano e il sentire rituale. La natura umana è tale da poter essere sempre in grado di imparare, di migliorare e di perfezionarsi all`infinito: l`esercizio di autoqualificazione riguarda tutti, non una certa classe o ceto. «Il mio insegnamento – dice Confucio – è rivolto a tutti senza distinzione» (Dialoghi, XV, 38). L`eccellenza è un valore morale che implica il rapporto con gli altri, il quale è retto e mantenuto attraverso lo spirito rituale. Questo non deve essere considerato come alcunché di meramente conformistico e stereotipato, ma implica una partecipazione ed una energia emozionale profonda. In altre parole, il `cittadino di qualità` non è altro che `l`uomo di valore` confuciano. In questo modo le spinte verso il soggettivismo, che prov11ono dall`influenza euro-americana, sono immunizzate da quella deriva che li porterebbe verso la dissoluzione dei legami sociali e la disintegrazione dello stato. La famosa frase confuciana «vincere il proprio io, per rivolgersi ai riti» vuol dire appunto disciplinare se stessi stabilendo un rapporto armonico con gli altri.
In italia avviene il contrario. Qualsiasi tentativo di introdurre nel discorso culturale la qualità invece della quantità è bollato come elitista, anti-democratico o addirittura aristocratico! Non mi risulta che ci sia qualcuno che teorizzi la legittimità del governo dei peggiori perché tali, nemmeno i seguaci di Mandeville (1670-1733) (per chi non lo ricordasse, è l`autore di La favola delle api in cui il vizio è condizione della prosperi- tà economica degli stati). Se invece con essa s`intende la nobiltà, la quale lungo i secoli si è appropriata indebitamente di questo termine, io ho una cattiva opinione della nobiltà italiana nel suo complesso e penso che un suo eventuale governo sarebbe peggiore di quelli esistenti. Ma quando mi si bolla come `aristocratico` s`intende una terza cosa, il fatto che sono sempre stato un sostenitore dell`autorevolezza della conoscenza.
Sarebbero dunque stati `aristocratici` i fondatori della scienza moderna, gli illuministi, gli idéologues, gli idealisti, i marxisti, i positivisti, i teorici del pensiero critico e così via? Tuttavia queste sono finezze per l`oscurantismo comunicativo e demagogico che fa di ogni erba un fascio, e non potrebbe fare diversamente, data la sua ignoranza che non gli consente di distinguere tra pensatori di sinistra, di centro o di destra, progressisti o reazionari... proprio perché è allergico alla stessa esistenza di `pensato- ri`! Certo qualche etichetta politica bisogna ben darsela, ma questa alla fine si riduce ad una sola: riformismo! Io trovo imbarazzante per l`attuale classe politica italiana la scomparsa dei conservatori: tutti si definiscono come `riformisti`, senza accorgersi che la maggior parte degli italiani ha ormai una gran paura delle innovazioni, dato che queste sembrano nascondere quasi sempre qualche marchingegno che peggiora la situazione esistente a favore degli interessi di coloro che queste `riforme` promuovono. A questo punto l`autodefinirsi `conservatore` è perfino peggio che passare per `rivoluzionario`. Infatti, è scattata l`identificazione dei `rivoluzionari` con i Black Bloc, con i `terroristi` e i loro fiancheggiatori, mentre per i conservatori non c`è che disprezzo o il compatimento. Nulla rassicura di più i fautori della comunicazione, dell`effimero, del presentismo che la mancanza di qualsiasi qualità, specie se è accompagnata da qualche successo, a riprova che studiare non serve a niente e che i primi della classe sono gli ultimi della vita. Chi fa il nulla dietro di sé, ha il nulla davanti a sé: in altre parole se si vuole costruire davvero il futuro, bisogna nello stesso tempo ripensare il passato.

Bibliografia
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L.X. Polastron, Libri al rogo, Milano, Sylvestre Bonnard, 2006.

•R. MacFarquhar-M. Schoenhals, Mao`s last revolution, Cambridge (Mass.) and London, Harvard University Press, 2006.
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L. Tomba, La società cinese in epoca maoista e la transizione postmaoista, in G. Samarani-M.Scarpari (a c. di), La Cina, III: Verso la modernità, Torino, Einaudi, 2009, pp. 548-595.

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